RASSEGNA STAMPA – IL PD SI DIVIDE SULLA FIRMA DEL REFERENDUM PROMOSSO DALLA CGIL SUL “JOBS ACT” OVVERO LA RIFORMA DELLA LEGGE SUL LAVORO VOLUTA DA MATTEO RENZI NEL 2014 QUANDO ERA SEGRETARIO E LEADER DEL PD.

LA SCHLEIN FIRMA IN COERENZA CON LA POSIZIONE DICHIARATA IN OCCASIONE DELLE “PRIMARIE” CHE L’HANNO PORTATA ALLA GUIDA DEL PD MA LASCIA LIBERI DI NON FIRMARE COLORO CHE LA PENSASSERO DIVERSAMENTE.

Silvia Bignami per “la Repubblica” -Estratti

Alla fine Elly Schlein esce allo scoperto: «Firmerò per il referendum della Cgil». Per intenderci, la segretaria del Pd mette la sua firma in calce al referendum di Maurizio Landini contro il Jobs Act. La riforma del lavoro del Pd, voluta nel 2016 dall’allora leader dem Matteo Renzi. Un gesto inevitabile per Schlein che lasciò il partito proprio in polemica col Jobs Act. E una mossa discussa e concordata anche con Stefano Bonaccini, col quale è salita ieri sera sul palco di Ferrara per spingere il candidato dem Fabio Anselmo, a riprova che spaccature non ce ne sono. «La segretaria non impegna il partito a firmare. Lei agisce coerentemente con la sua storia. Altri di noi pensano si debba guardare al futuro, piuttosto che al passato» spiega i termini del patto Alessandro Alfieri, braccio destro di Bonaccini nella segreteria unitaria di Schlein. Così, la leader dem tiene la barra del partito, lasciando di fatto a ognuno libertà coscienza sul Jobs Act. E affidandosi anche a Bonaccini, e alla sua capacità di tenere le redini della minoranza di Energia Popolare, nonostante diversi dirigenti riformisti abbiano avvertito di non voler firmare il referendum Cgil. Un compromesso complicato ma necessario. Era impossibile infatti per Schlein astenersi dai banchetti del sindacato. Impossibile perché la segretaria impostò tutta la sua campagna congressuale contro il Jobs Act. Perché nel 2015 era in piazza con la Cgil contro la riforma. E poi anche perché il M5S non aspetta altro che superare il Pd da sinistra, e il leader pentastellato Giuseppe Conte si era già mosso, recandosi per primo, il giorno dei Lavoratori, a formare ai banchetti Cgil. Per lui del resto era facile, visto che il M5S è sempre stato contro il Jobs Act. Più complicato per il Pd, che otto anni fa approvò convintamente la riforma. Così, a costo d’essere accusata di inseguire Conte, Schlein rompe gli indugi: «Ho già detto che molti del Pd firmeranno così come altri non lo faranno. Io mi metto tra coloro che lo faranno. Non potrei far diversamente visto che è un punto qualificante della mozione con cui ho vinto le primarie l’anno scorso», ha spiegato la segretaria alla festa dell’Unità a Vecchiazzano a Forlì, davanti ai banchetti della Cgil. Ciò non toglie, aggiunge, che «adesso il Pd è impegnato nella campagna delle Europee, sulle amministrative, e su un’altra raccolta firme per noi molto rilevante che è quella per il salario minimo ». Con Bonaccini nessun problema, assicurano dal Nazareno. Anzi Schlein e Bonaccini si presentano insieme sul palco, ieri sera a Ferrara. L’area riformista guidata dal governatore tuttavia non può certo sorridere. Lorenzo Guerini due giorni fa aveva avvertito che al posto della segretaria non avrebbe firmato. E subito dopo l’annuncio di Schlein, Piero De Luca, coordinatore della mozione Bonaccini, parla di un Pd che «guarda nello specchietto retrovisore ». Punge anche Marianna Madia: «Se proprio voleva fare questa forzatura poteva farlo prima di Conte. Rimango contraria. In molti come me». E Simona Malpezzi: «Non firmerò e penso sia sbagliato firmare». Ovviamente dure le reazioni dei centristi, che invitano i riformisti ad abbandonare un Pd che guarda sempre più a sinistra. «Così il Pd si appiattisce sulle battaglie ideologiche di Landini. Un gravissimo errore », scrive Carlo Calenda, Azione.

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IL DUELLO «ASIMMETRICO» TRA PREMIER E SEGRETARIA

Monica Guerzoni per il “Corriere della Sera” – Estratti

Che fine ha fatto il tanto atteso duello? Giorgia contro Elly, Elly contro Giorgia. La prima donna premier e la prima donna segretaria del Pd un giorno si attaccano, l’altro si sfidano a unire le forze per il bene del Paese e l’effetto di polarizzazione della campagna elettorale ancora non si vede. Intanto perché al voto manca un mese e in palio non c’è il governo del Paese, ma uno scranno in Europa che nessuna delle due leader ha intenzione di occupare. E poi perché tra Giorgia e Elly corrono candidati come Vannacci e non-candidati come Conte e Salvini, che alzano i toni per attrarre l’attenzione. Il leader del M5S si è inventato anche i comizi a teatro «in stile Steve Jobs».

Schlein ce la mette tutta.

Critica duramente Ursula von der Leyen per aver aperto ai conservatori guidati da Giorgia Meloni, si sgola per chiedere le dimissioni di Santanché, accusa la premier di sforbiciare pesantemente i fondi alla sanità pubblica. E se la segretaria sfida Meloni a «darsi da fare seriamente in Parlamento» con l’opposizione per fermare la strage sul lavoro, la premier incalza l’avversaria preferita sull’immigrazione: «Schlein sta con noi, dalla parte di chi vuole combattere i nuovi schiavisti, o dalla parte dell’immigrazione illegale di massa?». Ma è uno dei rari attacchi diretti perché la premier, dall’alto di Palazzo Chigi, non sembra avere tutta questa urgenza di duellare con la segretaria. E così, la contrapposizione interessata tra le due prime donne, che doveva mettere in fuori gioco avversari e alleati scomodi e alzare un muro tra sinistra e destra, fatica a decollare. Se c’è preoccupazione, al Nazareno non lo danno a vedere. Rivendicano di aver lanciato il guanto a Meloni «per marcare le differenze nel modo di intendere il partito, l’Italia e il mondo». (…) Perché la sfida cominci davvero, bisogna attendere che il derby approdi sul piccolo schermo. Sono settimane che se ne parla e il confronto tv non ha ancora una sede, un format, una data. A sentire lo staff della leader della destra, «Giorgia ha accettato di fare qualcosa che nella politica italiana non si era mai visto prima». Perché lei non è solo il capo del governo «nel pieno del suo mandato», ma guida il primo partito italiano, «eppure non si è sottratta al confronto pubblico con un leader dell’opposizione». Tra i rispettivi staff è braccio di ferro. I meloniani chiedono che il duello tv si tenga in Rai, mentre i dem le hanno provate tutte per sottrarsi a «Telemeloni», proponendo che la rete fosse La7 e provando a convincere lo staff avversario che l’arbitro perfetto è Enrico Mentana. Ma lo staff di Meloni insiste con il pacchetto Viale Mazzini-Bruno Vespa, perché «un premier si confronta sul servizio pubblico».