RASSEGNA STAMPA

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PROBABILMENTE LA MESSA SOTTO ACCUSA DI GOVERNO E SCIENZIATI PER GLI OLTRE 4MILA MORTI DI BRESCIA FINIRÀ CON UN NULLA DI FATTO GIUDIZIARIAMENTE E MOLTO RUMORE MEDIATICAMENTE. E’ FONDATA L’OSSERVAZIONE CHE NON SI PUÒ GIUDICARE COL SENNO DI POI UNA PANDEMIA CHE HA COLTO DI SORPRESA TUTTI, GOVERNO E SCIENZIATI. DIVERSO È SE, NELLE CONDIZIONI DATE, CI SONO STATE OMISSIONI COLPEVOLI O DECISIONI MANIFESTAMENTE E CONSAPEVOLMENTE PERSEGUIBILI SOTTO IL PROFILO PENALE. VI FURONO SCELTE POLITICHE FINALIZZATE A TUTELARE LE IMPRESE E L’ECONOMIA MA, IN QUANTO TALI, SOTTRATTE ALLA COMPETENZA DELLA MAGISTRATURA. BEN ALTRO PROFILO AVREBBERO, SE ACCERTATE, LE RESPONSABILITÀ DI CHI DISPOSE IL TRASFERIMENTO DI PAZIENTI “COVID” NELLE RSA OVVERO NELLE CASE DI RIPOSO PER GLI ANZIANI. FARE LUCE SULL’ACCADUTO, SENZA INVOCARE PATIBOLI E CADUTE DI TESTE, LO DOBBIAMO AI MORTI E AI LORO FAMILIARI. NON SI TRATTA DI POCHE DECINE MA, A QUANTO PARE, DI OLTRE 4 MILA DECESSI CHE POTEVANO ESSERE EVITATI.

Estratto dell’articolo di Monica Serra per “la Stampa”

La decisione «necessaria», che nella Bergamasca avrebbe salvato più di quattromila vite, non arrivò mai. Non la presero i sindaci di Alzano e Nembro, i comuni più colpiti della val Seriana. Non la prese il governatore di Regione Lombardia, Attilio Fontana. Non la prese l’allora premier Giuseppe Conte. Sotto le pressioni innanzitutto del mondo imprenditoriale – non si può scordare la campagna #Bergamoisrunning di Confindustria – nessuno si assunse la responsabilità di una scelta tanto impopolare quanto indispensabile. Anche perché, per usare le parole di Conte, «la zona rossa ha un costo sociale, politico ed economico molto elevato». Ma i sindaci di Alzano e Nembro, che pure avrebbero potuto decidere, in quei giorni difficili non avevano a disposizione dati e proiezioni che annunciavano già «lo scenario più catastrofico». Per questo non compaiono tra i 19 indagati a vario titolo per epidemia e omicidio colposi, rifiuto di atti d’ufficio e falso nella maxi inchiesta appena conclusa dalla procura di Bergamo. Conte e Fontana, invece, per i magistrati avevano tutti gli elementi per comprendere le dimensioni della bomba che stava esplodendo a Bergamo. E con loro anche i membri del Comitato tecnico scientifico, a partire dal professore Silvio Brusaferro. Di certo – ha ricostruito la Gdf – lo sapevano a partire dal 26 febbraio del 2020 quando, per la prima volta durante una delle riunioni del Cts, si prese atto del fatto che i «casi positivi di coronavirus in Italia provengono da aree della Lombardia diverse dalla zona rossa» del Lodigiano, istituita a 48 ore dalla scoperta del «paziente 1».   […] In quegli stessi giorni, il 27 e il 28 febbraio, pur consapevole che nella val Seriana l’indicatore «R0» avesse ormai raggiunto valore pari a 2 e che gli ospedali fossero in ginocchio, Fontana inviò due mail a Conte per chiedere «il sostanziale mantenimento delle misure di contenimento già vigenti in Regione Lombardia». Cagionando così, con Conte e gli esperti del Cts, «il contagio» e «il decesso» di 4.148 persone. Nel frattempo, a Roma, l’istituzione della zona rossa non fu presa in considerazione neanche il 29 febbraio (con 615 casi) né il primo marzo (con 984 casi). Solo il 2 marzo se ne iniziò a parlare nel corso di una riunione riservata con Conte, di cui non è mai stato redatto il verbale. Interrogato a palazzo Chigi dai pm, l’ex premier dirà di averlo saputo il 5, tre giorni più tardi. In ogni caso, non darà mai il via libera all’istituzione della zona rossa nella Bergamasca, nonostante i 300 uomini dell’esercito già inviati in val Seriana dal ministero. Né il 3 marzo, quando il parere positivo arrivò anche da Regione Lombardia. E neanche il 5 marzo, quando il ministro della Salute, Roberto Speranza, in partenza per Bruxelles, firmò una delibera mai controfirmata dal premier. […]