
(di Pippo Gallelli – fonte europadomani.com)
Ci è voluta tutta la pazienza diplomatica del premier canadese Mark Carney – e quella dei suoi colleghi – per evitare che il vertice del G7, in corso a Kananaskis in Canada, si trasformasse nell’ennesima passerella senza sostanza. Dopo un iniziale rifiuto e un’uscita di scena degna di un reality show, Donald Trump ha infine apposto la sua firma – sudata, contrattata parola per parola – alla dichiarazione comune sulla crisi in Medio Oriente.
Trump spingeva per il reintegro dell’“amico” Vladimir Putin nel consesso delle democrazie occidentali, mentre lo zar ordinava nella notte nuovi bombardamenti su Kiev: 14 i morti civili. Strano modo di interpretare il ruolo di “pacificatore”.
Il testo finale, levigato fino all’ultima virgola per non urtare la suscettibilità americana, mantiene un tono apparentemente equilibrato: si ribadisce l’“impegno per la pace e la stabilità nella regione” e si riconosce “il diritto di Israele a difendersi”. A corredo, un richiamo – doveroso ma sbiadito – all’importanza della protezione dei civili. Un equilibrio retorico utile più a placare le coscienze che a incidere sulla realtà.
Non poteva mancare il passaggio obbligato: l’Iran resta la principale fonte di instabilità e terrore nella regione. Si ribadisce, come da copione, che Teheran non deve mai ottenere un’arma nucleare – un mantra scolpito nei comunicati internazionali da almeno vent’anni.
Intanto, anche sui media occidentali prende sempre più piede la narrazione di Israele come avamposto della sicurezza dell’Occidente. Peccato che questa sicurezza venga perseguita in aperta violazione del diritto internazionale, dimenticando il genocidio in corso a Gaza, costato decine di migliaia di morti, tra cui tantissimi bambini.
Il “successo” politico del documento, si dice, sta nell’inserimento di un appello alla de-escalation e a un cessate il fuoco nella Striscia. Una concessione lessicale pensata per rassicurare gli spiriti più sensibili, ma che rischia di restare confinata alla carta, ben lontana dai cieli attraversati dai droni e dai corpi sepolti sotto le macerie.
L’unico vero punto di consenso è, come sempre, la necessità di vigilare sulle implicazioni per i mercati energetici globali. Perché, se c’è qualcosa che neppure una guerra mondiale può permettersi, è l’instabilità del prezzo del petrolio.
Mentre Trump riparte per gli Stati Uniti e i leader celebrano la “unità salvata” del G7, resta il retrogusto amaro di un vertice che invoca la pace ma prepara la guerra. Dove si difende il diritto alla sicurezza di uno Stato, ma si dimentica il diritto alla vita dei civili. Dove l’unico linguaggio veramente condiviso è quello del realismo strategico: alleanze, gas, armi, mercato. E la diplomazia, come sempre, relegata in fondo al comunicato.
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